Corpi e menti in combattimento (seconda parte): post-combat analysis

(di Denise Serangelo)
04/09/15

La Storia è una costellazione di guerre e battaglie e se si guarda ancora meglio, in ogni battaglia e in ogni guerra potremmo vedere il volto di un soldato che ci combatte.

Abbiamo visto cosa succede al corpo di un guerriero durante la lotta, ma dopo?
Come reagisce il corpo umano dopo una battaglia o uno scontro a fuoco?

A queste domande ha dato ampiamente seguito il colonnello dei Ranger Dave Grossman, che ha condotto ricerche per scoprire come il corpo e la mente di un soldato reagiscono ad uno scontro a fuoco o ad un evento traumatico.
Appurato che il nostro fisico, sottoposto ad un intenso stress da combattimento, si orienta totalmente alla sopravvivenza e all'evitare il sovra caricamento dei cinque sensi; vediamo come questo reagisce dopo che il combattimento è giunto al termine.

Il momento immediatamente successivo alla lotta è definito il momento di maggior vulnerabilità di un soldato.
Durante la battaglia il soldato e il suo sistema nervoso simpatico, fronteggiano lo stress da questa derivato, il corpo riceve continue scariche di adrenalina ed è sottoposto ad una notevole tensione.
Al termine di questa condizione al SNS subentra il SNP - sistema nervoso parasimpatico - che in antagonismo al primo rilassa il corpo e lo riporta ad una condizione di normalità.
Questo fortissimo crollo parasimpatico porta ad una stanchezza molto forte, si diventa distaccati e privi di stimoli.

Si capisce da sé che finché questa situazione si presenta mentre siamo comodamente sdraiati sul divano di casa tutto è sotto controllo, ma quando ci si trova tra una battaglia e un'altra può essere molto pericoloso.
Purtroppo questo non è un meccanismo che possiamo controllare in qualche modo, il nostro sistema nervoso funziona autonomamente a prescindere da quelle che sono le condizioni che ci circondano.

Allora, cosa dovrebbe fare un valido comandante?

In prima analisi è fondamentale un'adeguata turnazione tra uno scontro a fuoco e un altro.
Se gli uomini dovessero proseguire dopo una battaglia per arginare l'avanzata nemica allora, il crollo parasimpatico li renderebbe vulnerabili. Gli uomini riposati e guidati dal SNS risponderanno meglio al fuoco e saranno più vigili, correndo meno rischi.

Un secondo metodo molto usato per non cadere vittima di questa vulnerabilità post vittoria è quello che gli americani chiamano L.A.C.E. (Liquids, Ammunitions, Casualities, Equipment).
Con questo acronimo i militari si ricordano che dopo una battaglia devono ridistribuire le munizioni, bere molto, curare i feriti, provvedere ai caduti ( o ai feriti) e verificare il loro equipaggiamento.
In questo modo i soldati imparano - sia durante l'addestramento che nella realtà - a gestire in modo utile e costruttivo il momento successivo allo scontro.

Abbiamo visto come il crollo parasimpatico rischi di diventare un grande problema dopo una battaglia, ma cosa succede quando questa battaglia per cui ci siamo preparati non viene combattuta?

E' come un arco che si tende ma non scocca mai la sua freccia.
Dall'esterno si può pensare che per un guerriero non combattere una battaglia sia quasi un favore, in realtà questi soldati entrano in modalità "combat" ben prima di avere uno scontro reale.

La predisposizione mentale e l'attivazione dei sensi è seguita dalla scarica di adrenalina di cui il corpo ha bisogno per gestire la situazione. Quando questa adrenalina non viene sfogata in uno scontro diretto allora deve essere necessariamente sfogata ( o espulsa) in qualche altro modo.
Il metodo migliore e più sano per espellere l'adrenalina in eccesso è quello di farsi una sana corsa di qualche kilometro oppure una seduta di allenamento intensivo.

Lo sforzo fisico aiuterà il nostro corpo a rilassarsi e dunque a riposare.
Qualche veterano ( poliziotto o militare che sia ) usa metodi decisamente meno ortodossi per smaltire l'adrenalina due di questi sono l'assunzione di alcool e nicotina.
Erroneamente si pensa che queste due sostanze possano aiutare il nostro corpo a risposare meglio, nonostante l'adrenalina che ancora abbiamo in circolo. Sbagliato.
Diversi test scientifici di indubbio valore hanno già sperimentato che alcool e nicotina non hanno effetto sul sonno e sullo smaltimento dell'adrenalina residua nel corpo.

Lo smaltimento dell'adrenalina di cui abbiamo parlato è direttamente correlato ad un altro problema post combattimento: il sonno.
I disturbi del sonno sono frequenti nei militari e nelle forze di polizia; turni massacranti, famiglie che richiedono attenzione e impegni personali fanno passare in secondo piano un adeguato riposo.
Sarebbe bellissimo se potessimo avere giornate di 72 ore e usarle tutte per ottemperare ai nostri impegni e doversi, ma ad un certo punto il vostro corpo urlerà vendetta e reclamerà le sue ore di risposo.

La privazione del sonno per il nostro corpo è assolutamente deleteria e lo è anche per le performance sul posto di lavoro: tempi di reazione raddoppiati, lentezza nell'elaborazione di informazioni e nella capacità di giudizio. Per non parlare della vigilanza e della perdita improvvisa di calma e motivazione.
Non a caso il perdurare della mancanza di sonno nei prigionieri è considerato a tutti gli effetti tortura.
Terminata la battaglia o il proprio turno di lavoro è assolutamente necessario per il corpo di qualunque guerriero riposarsi adeguatamente.
Qualche notte senza dormire non distruggerà il nostro fisico che con un adeguato addestramento riuscirà a far fronte alla mancanza di sonno, tuttavia il prolungarsi volontario di questa condizione è sconsigliabile.
Oggi è stata riscontrata una sostituzione progessiva del sonno con videogiochi o collegamenti internet dai teatri operativi.
I soldati invece di dormire preferiscono giocare ai videogiochi ( quasi sempre violenti ) oppure navigare in rete per ore, questa forma di evasione dalla realtà oltre a debilitare il loro corpo può a lungo andare logorare anche le loro menti.
Gli americani durante e dopo l'esperienza in Afghanistan ed Iraq stanno seriamente rivalutando il loro approccio alla "questione sonno" perché ne hanno compreso gli effetti potenzialmente devastanti.

Quanto fin qui esposto sono effetti che il nostro corpo subisce dopo essersi impegnato in battaglie o scontri a fuoco.
Sempre di maggior interesse sono anche i danni che la mente può patire dopo uno scontro letale, che questo avvenga nelle strade della nostra città o dall'altra parte del mondo.
Uccidere o vedere qualcuno che uccide è sempre un turbamento enorme in virtù della Fobia Umana Universale.

Il turbamento che un essere umano che uccide un altro essere umano provoca nella nostra mente è immenso e necessità di una serie di contromisure affinché non subentrino problemi più gravi come il disturbo post traumatico da stress.

Dopo uno scontro o una battaglia è necessario che una volta rientrati alla base si esegua quello che il colonnello Grossman chiama debriefing.
Questo strano nome mutuato dall'inglese altro non è che una discussione che dovrebbe aiutare i partecipati ad accettare ciò che è accaduto e perché no a trarne qualche insegnamento utile per il futuro.
Non è consigliabile effettuare questa riunione subito dopo l'evento, perché - in virtù di quanto detto prima - la memoria in caso di stress e traumi può giocare un brutto tiro anche al soldato più esperto.
Sarebbe ottimale eseguire questa operazione dopo una notte di sonno perché quest'ultimo aiuta il rilassamento e la memorizzazione a lungo termine dei ricordi.
Fortemente sconsigliato è raccontare l'evento ad amici e parenti subito dopo il fatto, oppure bere alcool e fare uso di sostanze alteranti, perché non aiutano il riaffiorare dei ricordi e la loro memorizzazione.

Il debriefing non è necessariamente uno strumento fine di psicologia ma è anche qualcosa di informale come una chiacchierata tra colleghi dopo un evento critico.
Quando il supporto che viene richiesto dalle circostanze è più elaborato allora il debriefing diviene uno strumento più oculato e strutturato in modo da offrire la massima efficacia a chi vi partecipa.
Durante queste riunioni vi è sempre un "veterano" anziano che spiega ai suoi interlocutori cosa è normale e cosa non lo è. Le reazioni fisiologiche più imbarazzanti (rilassamento degli sfinteri, tremori ed ammutolimenti) e le reazioni meno conosciute dello stress da combattimento possono emergere in questo contesto, facendo capire agli uomini che alcuni inconvenienti sono del tutto naturali.

Quello che però non può mai essere presente ad un debriefing è l'ansia. Quest'ultima non favorisce nessuno e chi ne è vittima rischia solo di mescolare i propri ricordi. Quando l'ansia si presenta a queste riunioni terapeutiche allora è importante che il tutto si fermi per qualche minuto e si pratichi la così detta "respirazione tattica" un tipo di respirazione profonda che aiuta immediatamente a rilassarsi e a riprendere il controllo di se stessi.

Ma a cosa serve materialmente questa operazione? Ci sono due importanti funzioni che il debriefing assume: la prima è addestrativa e la seconda è di ri-sintonizzazione con se stessi.

La funzione addestrativa del debriefing viene chiamata anche after action review e si basa sul concetto noto a tutti del "sbagliando si impara".
Analizzando l'accaduto con tutti i suoi partecipanti si mettono in evidenza gli eventuali errori per porvi rimedio in future operazioni o anche solo per farne tesoro.
Questa funzione è fondamentale, soprattutto in fase addestrativa, quando si analizzano gli errori per non ripeterli su un campo reale.
La seconda funzione è quella che il debriefing offre a chi vi partecipa ricostruendo punto per punto l'accaduto.
Dobbiamo ricordarci che alcuni degli aspetti cognitivi più importanti dopo un evento traumatico sono la distorsione percettiva e la distorsione dei ricordi, questa riunione ci aiuta a comprendere davvero come sono andati gli eventi e a ristabilire l'integrità del gruppo.
Inoltre subito dopo l'evento traumatico la nostra mente ha un orientamento puramente egoistico, in quanto proiettata alla sopravvivenza della nostra persona.

"Meno male che non è toccato a me!" è una delle prime cose che pensiamo quando vediamo un cadavere o sentiamo la notizia di un incidente stradale. E' una situazione del tutto naturale anche quando a morire è un nostro amico o collega.
Se si ha un legame affettivo con il deceduto o il ferito, questa frase - automatica - può portarci ad avere severissimi tumulti personali e può portarci ad assumere la colpa dell'accaduto.

"E' tutta colpa mia!" è la seconda frase che si dice più spesso anche se materialmente non potevamo fare nulla per evitare l'evento traumatico.
Il debriefing ricostruendo l'accaduto ci fa realmente capire dove sbagliamo e ci permette di dividere il dolore con la comunità di cui facciamo parte.
Quando il dolore è condiviso è come se materialmente dessimo un pezzettino del nostro dolore anche agli altri affinché diventi più sopportabile per noi.

Nonostante quanto appena detto l'abitudine del debriefing si sta lentamente perdendo nelle truppe di terra a causa di una tipologia di guerra sempre più serrata e senza limiti temporali.
L'uso di strumentazioni notturne e la necessità dell'effetto sorpresa contro nemici asimmetrici ha impedito che vi fossero ore di riposo per poter parlare di quanto accade sul campo.
Agli occhi dei più intransigenti sostenitori della teoria "parlare di sentimenti è per le donne" è bene ricordare che il debriefing non serve solo a loro stessi ma ai loro compagni. A qualcuno potrebbe far bene ripercorrere gli eventi e sapere di aver avuto reazioni del tutto normali allo stress.
Dovete solo decidere se partecipare alla riunione a costo di sembrare delle femminucce oppure non parteciparvi e lasciare un vostro collega ad annegare nei sensi di colpa.

Se si volesse fare un piccolo appunto di natura economico il debriefing non costa praticamente nulla, se non qualche ora di tempo, il non praticarlo potrebbe creare uomini depressi, stressati e turbati che andrebbero seguiti da medici specializzati.

Negli Stati Uniti il disturbo post traumatico da stress viene curato con medicine dagli effetti devastanti senza affrontare davvero il problema con un'analisi mirata seguita da psichiatri e psicologi.
In Italia siamo ancora convinti che il disturbo creato dallo stress da combattimento possa essere risolto con qualche flessione in più e un po’ di sana volontà.

Continuando su questa linea, guarderemo negli occhi i soldati e continueremo a vedere in loro un profondo turbamento.

Perché "armiamoci e partite" è sempre un bel motto ma quanti poi sono disposti ad affrontare le conseguenze di quelle partenze?

Rompere le catene dello stereotipo e superare le paure non è mai facile, ma in questo caso ci sono in gioco migliaia di vite che meritano di essere vissute e non sacrificate.
Il solo sacrificio che questi soldati devono al loro paese è quello di partire quando saranno chiamati, il sacrificio che spetta a noi è quello di ascoltare cosa hanno vissuto.

(Clicca qui per la prima parte: "Corpi e menti in combattimento: arma imperfetta?")

(foto: US DoD)